a cura di Francesca Coddetta
Intelligenza emotiva e sviluppo individuale nel mondo del lavoro.
L’intelligenza emotiva è un fattore critico per la resilienza e lo sviluppo delle competenze relazionali. Essa fa la differenza in termini realizzazione dei propri obiettivi, in quanto ogni giorno siamo chiamati come singoli e come membri di un gruppo (lavoro, famiglia, amore/amicizia), a prendere decisioni, raggiungere obiettivi, superare ostacoli, risolvere problemi, gestire imprevisti. In sostanza l’intelligenza emotiva è fondamentale per prendere decisioni che funzionano gestendo situazioni complesse sotto pressione.
Si tratta di una dimensione dell’intelligenza umana che comprende l’abilità:
- di riconoscere le proprie emozioni;
- di consapevolizzarle e dare loro un nome;
- di comprendere le ragioni (bisogni) per cui ci si sente in un certo modo;
- di riuscire ad utilizzare le emozioni a proprio vantaggio abbinando ad esse comportamenti funzionali e socialmente accettati;
- di relazionarsi con le emozioni altrui e con i comportamenti che da esse scaturiscono.
Quando impariamo a sviluppare l’intelligenza emotiva
A prescindere dall’età, le competenze emotive possono essere apprese, educate e potenziate per la crescita e la realizzazione professionale.
Comprendere le proprie emozioni e quelle degli altri è un processo che ha inizio con la nascita, ma richiede allenamento continuo. I risultati delle ricerche in ambito delle neuroscienze, hanno dimostrato ormai da tempo che in qualsiasi momento del corso della propria esistenza o storia professionale, è sempre possibile per un individuo dare forza e vigore alla propria intelligenza emozionale. Le emozioni sono fondamentali per l’autoconsapevolezza, l’autoefficacia, la capacità di cooperare e stabilire legami sociali positivi e costruttivi. In sintesi, sono fondamentali per il benessere bio-psico-sociale degli esseri umani.
Cos’è un’emozione?
La maggior parte delle teorie odierne definiscono l’emozione come una risposta del nostro organismo ad uno stimolo che provoca modificazioni a livello neurovegetativo, psicologico e comportamentale. Lo stimolo può essere reale o immaginario; provenire dall’ambiente esterno all’individuo, ossia, dal mondo sia fisico che relazionale che lo circonda; o interno, quando proviene dallo stesso sistema biologico o è attivato dai processi di pensiero (ricordi, giudizi, aspettative).
Le emozioni, in pratica, sono dei segnali, degli allert che avvisano la persona dei cambiamenti che avvengono nell’ambiente di vita. In risposta ad un evento/fenomeno possono accendersi contemporaneamente emozioni diverse. La loro intensità varia nel tempo, così come la loro durata che, generalmente, è comunque breve.
La risposta emozionale, quindi, non è uno stato, ma un processo in continua evoluzione.
Quante emozioni prova un essere umano?
Un essere umano vivo si emoziona continuamente, sia durante la veglia che durante il sonno. La maggior parte delle emozioni che viviamo, però, resta a livello sub-cosciente. I circuiti neuronali deputati al riconoscimento consapevole delle emozioni, si attivano, infatti, solo quando l’intensità delle risposte fisiologiche raggiunge una certa soglia. Quando l’emozione viene percepita a livello consapevole si attiva l’arousal, una condizione temporanea che coinvolge il sistema nervoso centrale sia a livello periferico che vegetativo. A seconda dell’emozione che si prova momento per momento, l’arousal provoca variazioni della frequenza cardiaca e respiratoria, della distribuzione del sangue nell’organismo, della temperatura corporea, della sudorazione e salivazione, della capacità attentiva, della capacità percettiva dei recettori sensoriali.
Questo meccanismo ha una funzione adattiva perché consente all’essere umano di accorgersi dei cambiamenti nel suo ambiente di vita, valutarne la bontà o la pericolosità e reagire in modo resiliente.
Sebbene generalmente le emozioni vengono categorizzate in positive e negative in funzione dell’effetto piacevole/spiacevole sul soggetto che le percepisce, tutte loro, a prescindere dalla valenza edonica, sono fondamentali per la sopravvivenza, il benessere e il successo dell’essere umano, in termini di raggiungimento degli obiettivi e soddisfazione dei bisogni.
Nella dimensione professionale, possiamo dire che la funzione delle emozioni sia, in generale, quella di aumentare la performance della persona che lavora.
Alcune emozioni sono innate e comuni a tutti gli esseri umani indipendentemente dall’età anagrafica, dal sesso biologico, dalla cultura di appartenenza. Altre si sviluppano con la crescita dell’individuo, vengono apprese e sono collegate all’educazione e al contesto socio-culturale.
Le emozioni primarie
Le prime vengono dette emozioni di base, universali o primarie. Quelle appartenenti all’altra categoria originano dalla combinazione delle primarie e vengono classificate come emozioni secondarie. In tanti hanno studiato gli stati affettivi cercando di definirli e categorizzarli. Non c’è accordo unanime tra gli scienziati, ma in linea generale sono considerate primarie: paura, gioia, rabbia, tristezza, sorpresa e disgusto.
Conosciamo le emozioni primarie
La sorpresa, pur essendo l’emozione di minor durata (una volta accesa persiste solo qualche istante) è fondamentale in quanto deputata ad attenzionare l’individuo su un cambiamento inaspettato. La sorpresa può aversi in risposta ad uno stimolo nuovo, del tutto sconosciuto alla persona; come, anche, a seguito di un evento noto, ma inaspettato o imprevisto. Essa lascia istantaneamente il posto ad altre emozioni primarie e secondarie in base a come la persona valuta il cambiamento. Si avranno gioia, curiosità, meraviglia, divertimento, felicità, e altre emozioni che provocano stati di benessere, in corrispondenza di stimoli valutati positivamente. La sorpresa lascerà spazio a paura, frustrazione, imbarazzo, inadeguatezza, rabbia e altre emozioni che provocano stati di distress, in corrispondenza di situazioni valutate come minacciose o problematiche.
Volendo fare un esempio, immaginiamo Rosa una donna di 57 anni che lavora nella stessa azienda da 30, con una seniority di 15 anni nello stesso ruolo. Ecco, ipotizziamo che l’HR comunichi a Rosa che cambierà team per portare avanti un progetto aziendale nuovo insieme a colleghi giovani e inesperti. La prima reazione di Rosa sarà la sorpresa. Quali emozioni sperimenterà subito dopo, dipende da come Rosa valuta la decisione aziendale, in base ai suoi bisogni, valori e aspettative. Potrebbe provare entusiasmo, curiosità e interesse giudicando il cambiamento come opportunità di crescita e di carriera. Percepire frustrazione, senso di inadeguatezza, rabbia, sentendo negato il suo bisogno di sicurezza e di appartenenza al team in cui lavora da anni. Anche i colleghi giovani potrebbero restare sorpresi dalla notizia che entrerà a far parte del loro team una collega anziana. Cosa proveranno successivamente dipenderà da come il team valuta la decisione aziendale, in base ai suoi bisogni, valori e aspettative. Potrebbero provare diffidenza e preoccupazione considerando l’ingresso di Rosa come un freno alla dinamicità e flessibilità delle strategie di gruppo; oppure rassicurazione e fiducia per la possibilità di attingere all’esperienza di una collega che nella sua carriera ha avviato molti progetti di successo.
Quale’è la funzione delle emozioni?
Primarie o secondarie, tutte le emozioni hanno la funzione di ottimizzare le prestazioni dell’individuo per renderlo abile a fronteggiare con successo il disequilibrio e il naturale stato di disagio che si attiva in concomitanza di un cambiamento nell’ambiente di vita. É evidente l’importanza di questo meccanismo nell’attuale momento storico caratterizzato dal cambiamento continuo, repentino, inaspettato a tutti i livelli: sociale, tecnologico, lavorativo. Perché la funzione adattiva abbia successo, è necessario che la persona, oltre a consapevolizzare le emozioni grazie all’aurosal, sia capace di riconoscerle, distinguendo le une dalle altre. Ogni stato affettivo, infatti ha un’azione specifica per il buon funzionamento dell’individuo.
Prendendo in esame solo le emozioni primarie, vediamo nel dettaglio che:
- La paura permette di uscire dalla zona di comfort consapevoli delle difficoltà e dei pericoli che si incontreranno, rendendo la persona libera di prepararsi ad affrontarli. La paura abbassa la probabilità di errore o fallimento.
- La tristezza ci prepara al cambiamento in quanto ci aiuta a riflettere sulle cose che stiamo lasciando andare o sui nostri insuccessi. Pensando e ripensando a queste cose, mettiamo a fuoco ciò che ha funzionato e che vogliamo portare con noi nel percorso di rinnovamento e ciò che invece consideriamo disfunzionale e preferiamo modificare.
- Il disgusto ci aiuta ad orientarci nel nuovo, portandoci a mettere distanza dalle cose, le persone o le situazioni minacciose, pericolose o contrarie ai nostri valori.
- La rabbia alimenta la perseveranza e la determinazione, fornendoci energia e forza per affrontare la fatica del cambiamento e per mettere confini che aiutano gli altri a rispettare i nostri spazi e la nostra dignità.
- La gioia accende la luce sulle cose che funzionano e sulle relazioni che ci nutrono. Grazie all’energia che questa emozione libera possiamo comprendere noi, e far capire agli altri, cosa soddisfa i nostri bisogni, così da rafforzare i comportamenti funzionali.
Essere consapevole dell’emozione che si sta provando, permette alla persona di individuare il bisogno che la origina e attivare una strategia comportamentale efficace per il raggiungimento dell’obiettivo congruente.
Tornando a Rosa, immaginiamo che lei si senta gratificata dalla proposta di cambiamento: le piace il suo lavoro e si sente motivata ad affrontare una nuova sfida professionale. Accanto a questo, Rosa potrebbe sentirsi intimorita all’idea di doversi integrare con colleghi più giovani, provare insicurezza e sentirsi inadeguata per il fatto di dover apprendere nuovi processi e strumenti. Riconoscendo queste emozioni, la nostra amica potrà contattare i bisogni che sono messi in discussione e alzano i suoi livelli di stress: avere relazioni di qualità con i colleghi e avere buone prestazioni sul lavoro. Consapevole di ciò, sarà in grado di usare il suo potere personale per abbinare alle emozioni che prova, comportamenti che soddisfino quei bisogni.
Cosa succede quando attiviamo un bias cognitivo
Spesso accade, però, che un bias cognitivo porti le persone a considerare le emozioni come ostacolo alla capacità di ragionare e fare scelte vincenti. La credenza comune vede l’emozione come sintomo di fragilità o ostacolo alla performance.
“Se un cambiamento mi fa paura, significa che non sono in grado o che non sia conveniente per me cambiare.”
“Se un cambiamento mi rende triste, significa che non va bene per me lasciare la mia zona di comfort o interrompere una relazione, anche se contatto il vissuto di malessere.”
“Se l’idea di cambiare mi fa arrabbiare, vuol dire che la sfida è pericolosa per me e per gli altri.”
Può succedere perciò che una persona, percependo le proprie emozioni, attivi delle resistenze.
Rosa, considerando il timore, l’insicurezza e il senso di inadeguatezza come indicatori del fatto che lei non sia adatta a questa nuova mansione potrebbe, perciò, attivare comportamenti disfunzionali, mettendo a rischio la sua carriera.
Come superare la resistenza al cambiamento?
La resistenza al cambiamento è quella forza che ci spinge a rimanere nella nostra comfort zone anche quando è diventata una zona di dis-comfort. Nella nostra vita quotidiana, tendiamo a mantenere lo status quo e ad aggrapparci a ciò che conosciamo per mantenere l’equilibrio che abbiamo raggiunto con grande fatica. La resistenza al cambiamento è, quindi, fisiologica.
Evitare il cambiamento è però impossibile, oggi più che mai, soprattutto nella realtà lavorativa. Resistendo al cambiamento, mettiamo a rischio il nostro benessere e ben-stare in azienda. Questo impatta, con effetto domino, direttamente sui nostri bisogni di riconoscimento professionale, appartenenza al gruppo, sicurezza e sopravvivenza.
Riusciamo a superare la resistenza al cambiamento grazie alle competenze di autoconsapevolezza e intelligenza emozionale. Quando siamo consapevoli dei nostri bisogni e della congruenza dell’obiettivo che abbiamo individuato, la motivazione al cambiamento cresce. Quando conosciamo le nostre emozioni, sappiamo usarle a nostro vantaggio per gestire positivamente il cambiamento. Sviluppare sé stessi significa essere aperti alla possibilità di rinnovamento; significa essere in grado di cambiare ruolo all’interno di un gruppo (da semplice risorsa a leader di un team) o svolgere lo stesso ruolo in modo differente (un genitore nei confronti di un figlio adolescente).
Impariamo a conoscere i bias cognitivi per affrontare positivamente il cambiamento
Per affrontare positivamente il cambiamento, è importante neutralizzare l’effetto di alcuni bias cognitivi legati alle emozioni che bloccano il processo di crescita professionale o lo rendono più difficile e demotivante. Alcune emozioni, più di altre entrano in gioco nel facilitare o ostacolare le persone rispetto al cambiamento. Dipende dal modo in cui le consideriamo. Sto parlando del senso di inadeguatezza, dell’ansia da prestazione e di tutte le emozioni legate all’esperienza dell’errore o del fallimento.
L’ansia da prestazione porta la persona a vivere uno stato di tensione, agitazione e preoccupazione rispetto ai compiti che vuole o deve portare a termine. Essa racchiude la paura di non essere all’altezza delle aspettative degli altri circa la propria performance. La funzione adattiva di questa emozione consiste nell’attivare l’attenzione, la capacità di concentrazione, e più in generale tutte le risorse interne all’individuo per aiutarlo a portare a termine il compito o raggiungere l’obiettivo al meglio delle sue possibilità. Quando la persona accoglie positivamente la sua ansia da prestazione, può avvalersene per ottimizzare performance e raggiungere i suoi obiettivi. Un giusto livello di ansia da prestazione garantisce il successo, sia rispetto ad un compito specifico da portare a termine, che rispetto all’obiettivo più generale di mantenere uno stato di equilibrio e armonia interiore.
Quando, invece, questa emozione viene vissuta come minacciosa e si tenta di reprimerla o nasconderla, genera una tensione che ostacola l’efficacia e l’efficienza.
L’attuale contesto culturale, sviluppato intorno ad un modello che dà valore alla competizione e all’immagine esteriore, alimenta un’altra emozione legata alla prestazione: il senso di inadeguatezza.
La sua funzione adattiva consiste nel rendere la persona consapevole delle proprie aree di miglioramento, permettendole di attivarsi per acquisire e potenziare conoscenze e competenze utili al raggiungimento costante degli obiettivi di ruolo (genitore, professionista, amante). È questa emozione che ci rende consapevoli del livello delle nostre competenze e capaci di perfezionarle e potenziarle. Il senso di inadeguatezza si traduce nella sensazione interna di non essere all’altezza di un compito. È la persona che giudica sé stessa come fuori luogo rispetto agli altri di riferimento o ad una mansione. Questa emozione è quindi, legata alla self-efficacy; una competenza trasversale che consiste nella capacità dell’individuo di credere di poter superare le difficoltà presenti sulla strada che sta percorrendo per raggiungere i propri obiettivi.
L’ errore facilita il nostro cambiamento
Per facilitare il nostro cambiamento bisogna riconoscere a noi stessi il diritto di sbagliare e stimolare una visione positiva delle emozioni legate al fallimento. Accettare l’esperienza dell’errore come parte del processo di apprendimento e miglioramento continuo nella dimensione privata o professionale, rende le persone disponibili all’idea di sostituire abitudini e metodi tradizionali con nuovi processi e nuovi strumenti di lavoro.
Quando ci accorgiamo di commettere un errore o di aver fallito un compito o un obiettivo, proviamo, oltre al senso di inadeguatezza, emozioni come frustrazione, imbarazzo, vergogna, fastidio, rabbia, tristezza, senso di colpa, insicurezza e altri stati affettivi della gamma emozionale che provoca sensazioni spiacevoli e distress.
È casuale? Assolutamente no!
Siamo biologicamente strutturati per evitare situazioni di disequilibrio che provocano distress e sensazioni spiacevoli. Quindi, una simile gamma emozionale abbinata all’errore e al fallimento facilita la persona, e gli esseri umani come specie, a non ripetere lo stesso sbaglio e non ripercorrere strategie inefficaci. Possiamo imparare dai nostri stessi errori, o, per apprendimento vicario, dagli errori delle persone che abitano il nostro ambiente di vita e di lavoro.
Per trasformare l’esperienza dell’errore in opportunità di crescita e sviluppo professionale, dobbiamo però essere disposti ad assumerci la nostra parte di responsabilità e utilizzare l’empowerment per guardare all’errore con la curiosità necessaria. Il primo passo è, quindi, accogliere come alleate le emozioni “negative” che genera l’esperienza fallimentare, traendo da esse l’energia per cercare le cause e formulare strategie funzionali al successo.
Facciamo un esempi concreto.
Nel corso dell’invecchiamento, sul vissuto emozionale del lavoratore over 50, hanno effetto una serie di fattori come i cambiamenti biologici, psicologici, sociali e le esperienze legate alla storia professionale. Particolare importanza hanno i vissuti relativi alla propria identità di lavoratore. Emozioni intense come il senso di inadeguatezza all’uso di nuove tecnologie, la delusione legata all’esclusione dalle politiche aziendali per lo sviluppo della carriera, o la paura di perdere il lavoro, possono impattare negativamente sulla motivazione al cambiamento favorendo negli older workers una passiva accettazione degli stereotipi legati all’aging. Tuttavia il lavoratore over 50 può riuscire a superare o attenuare l’entità di queste esperienze negative, nutrendo le proprie employabilities. Molti studi dimostrano, infatti, l’utilità psicologica di porsi degli obiettivi professionali precisi e raggiungibili.